venerdì 30 dicembre 2011

Certezze e rispetto per la scuola e per l’università

Terza missiva

Michele Corsi

Presidente della Società
italiana di Pedagogia

Certezze e rispetto per la scuola
e per l’università


Due sono le richieste di maggior quadro che la scuola, e con essa l’università, avvertono. In attesa che vengano soddisfatte. E che sono racchiuse nel titolo.
La prima è di vedere felicemente risolta, una volta per tutte, e non solo a livello burocratico o di accorpamento governativo, la dovuta sinergia tra scuola e università. Come un reale e unico contenitore di “contenuti” formativi pure diversi, ma non disgiunti, a livello di sistema: dalla formazione iniziale a quella in servizio, e permanente, dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado; e, in termini di processo-prodotto, sul versante delle competenze necessarie agli studenti per il loro inserimento sociale e lavorativo.
Ugualmente, dopo un decennio di frenetici cambiamenti, opportuni, meno opportuni e inopportuni (a mio parere), alcuni dei quali (tra questi ultimi) hanno poco a che vedere con il miglioramento di qualità, anche necessario, dei due comparti (anzi, paiono evidentemente ostativi), i maggiori bisogni, “di mente e di cuore”, sia della scuola che dell’università, sono quelli di poter “godere” di una pausa di riflessione che consenta di sperimentare adeguatamente l’accaduto, per consolidarlo o chiedere che sia modificato. Così da uscire da una stagione di affanni periodici e continui, maggiormente legati a una sorta di sempre possibile o praticabile, impervia, “navigazione a vista”, che non a una programmazione, seria e consistente, che è la sola che può consentire un impegno didattico rigoroso, contemporaneo e innovativo. In grado di abitare di futuro. E soprattutto di farlo abitare dai nostri giovani.
Impegno didattico che è connesso pure al rispetto dei tempi di lavoro del corpo docente (ma anche di quello amministrativo). Che è giustamente stanca, la prima componente, di venire prevalentemente descritta in termini per lo più negativi (a voler essere eufemistici).
Perché i processi di insegnamento-apprendimento, ovunque e comunque, richiedono tempi lunghi e distesi, alla pari di quelli educativi. E, congiuntamente, di poter disporre di certezze di progetto, monitoraggi opportuni, stima (e connessa autostima) da parte di chi insegna (ed educa), ascolto e considerazione degli allievi e degli studenti. Dunque: una maggiore “condivisione” ad intra e ad extra, non di meno con i soggetti e i luoghi deputati a “ri-formare”.
Ora alcune richieste, invece, maggiormente di “testo” che non di “con-testo” (come quelle espresse sinora), ma che sono indubbiamente, tutte, annodate tra loro.
La scuola (come l’università) ha un’esigenza permanente di qualità. Che sopravanza pure la giusta retribuzione economica e la possibilità di usufruire di spazi opportuni (quando non fatiscenti) per la migliore realizzazione educativo-didattica.
E gli attori principali della qualità sono i docenti. Quindi, la loro formazione iniziale e in servizio.
Sul primo versante, allora, la necessità di un “via libera” e di uno “stop” definitivi.
Il via libera, urgente, al tirocinio formativo attivo (TFA), ma con dati e tempi certi. Anche nel rispetto di moltissimi laureati, da troppo tempo in nevrotica e impaziente (nonché comprensibile) attesa. Nella prosecuzione con le pregresse SSIS, inopportunamente chiuse. E che avevano, invece, contribuito in larga parte alla costituzione di giovani e preparate leve docenti.
Lo stop, peraltro, e una volta per sempre, a sanatorie improprie. Quella, ad esempio, di potersi abilitare all’insegnamento nelle scuole dell’infanzia e primaria con un “corso” di 60 CFU (di cui al D.M. n. 249/2010), a fronte dei 300 CFU e del percorso quinquennale (e quadriennale, prima) di studenti e insegnanti già a tempo indeterminato, dal 1998 a oggi.
Ma anche un ripensamento dei percorsi formativi iniziali per il corpo docente nel suo insieme.
La qualità scolastica, impartita e realizzata, richiede lo sviluppo di aree del “sapere” (discipline e didattiche disciplinari), e, non di meno, del “sapere insegnare” (in termini di conoscenza di sé e dell’educando-discente, degli ambienti e degli orizzonti dove questa relazione si invera ecc.). Dunque, la necessità che, nelle lauree magistrali ad hoc, sia dato più spazio alle competenze pedagogico-didattiche, psicologiche, sociologiche, antropologiche ecc. Superando l’opposizione tra “stili” e “contenuti” d’insegnamento che è prevalsa in troppo, recente dibattito in proposito. E, talora, in termini non corretti.
Con un ri-affiancamento efficace, infine, dell’università alla scuola, sul crinale della formazione in servizio.
Perché logiche di sistema e percorsi di maggiore qualità sono interconnessi tra loro, come due facce di una stessa medaglia. E sono le uniche vie praticabili, a vantaggio di un Paese migliore, più sano e più sereno. Intelligentemente, e umanamente, competitivo.